giovedì 15 ottobre 2009

Edward Hopper, l'America da vicino

Gli interni, i caffè, le case tra le dune, ma anche le incisioni e i disegni: gli States tutti da scoprire L'America che abbiamo negli occhi è quella che ci ha raccontato lui, fatta di metropoli cresciute troppo in fretta e case di legno abbandonate su spiagge infinite. L'America della Grande Depressione e del New Deal, dei film hollywoodiani e dei primi veri «cittadini», personaggi tristi e soli. È stato lui a svelarci il lato oscuro della modernità, perché Edward Hopper (1882-1967) non dipingeva ciò che vedeva, ma ciò che sapeva, e questo ha fatto la differenza. Al caposcuola del «Realismo statunitense» è dedicata la grande mostra in arrivo, il 13 ottobre, a Palazzo Reale, più di 160 opere provenienti per la maggior parte dal Whitney Museum, la «casa» newyorkese di Hopper. Il luogo dove nel 1918 fondò il Whitney Studio Club, e l'istituzione che oggi, grazie al lascito della moglie Jo, possiede gran parte della sua produzione. La ricca retrospettiva ricostruisce in sette tappe, cronologiche e tematiche, una carriera durata oltre sessant'anni. Si parte dagli autoritratti, siamo nel 1903, che mostrano un bel giovane, impettito e alto alto, ancora fresco degli insegnamenti dell'impressionista Chase e dell'antiaccademico Henri e non ancora svezzato dall'incontro con la pittura europea. La produzione parigina è raccolta in una sezione in cui spiccano tele già delineate nel loro stile ma inondate da una luce più soffusa e meno fredda rispetto a quella usata nella maturità. L'incisione e l'illustrazione occupano due sezioni a parte. Seppure meno conosciute al grande pubblico, di fatto furono queste le due attività che a lungo gli diedero da vivere e che in qualche modo influenzarono tutta la sua produzione.

Molti dietro lo stile freddo e realista di Hopper vedono la mano del pubblicitario. Ed è l'«artigiano» quello che ama preparare le sue tele elaborando schizzi e disegni (prezioso il «Record book» in mostra) che rimaneggia di continuo alla ricerca della scena perfetta, del ciak assoluto, di quel taglio cinematografico che diventerà la sua cifra. Cifra che ben si distingue nelle ultime due tappe, una dedicata all'erotismo e l'altra ai luoghi e alla memoria. Le donne nude di Hopper sono dive, maschere senza tempo imprigionate nelle loro pose. Come imprigionati nella perfetta geometria dei luoghi sono i personaggi che animano i suoi appartamenti squallidi, gli anonimi caffè, i teatri semideserti, le case solitarie adagiate tra le dune del New England. Eppure sono proprio la rigidità delle forme e il rigore dei tagli di luce a rendere la freddezza di Hopper così unica e struggente. Uno struggimento malinconico che ricorda i racconti di Carver (a un immaginario incontro tra i due maestri lo scrittore Aldo Nove ha dedicato il libro «Si parla troppo di silenzio») e che il pubblico potrà provare a interpretare «recitando» il dipinto «Morning sun» in un set allestito all'interno della mostra dal videomaker Gustav Deutsch.

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